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Fundamina

versão On-line ISSN 2411-7870
versão impressa ISSN 1021-545X

Fundamina (Pretoria) vol.20 no.1 Pretoria Jan. 2014

 

Breviter su D. 25.2.2 (Gai. <10> ad ed. praet. tit. de re iud.)

 

 

Cosimo Cascione

Professore ordinario di Storia del diritto romano presso l'Universitá degli Studi di Napoli "FedericoII"

 

 


ABSTRACT

The article offers an exegesis of a short text from Gaius' edictal commentary, now included in the Digest title de rerum amotarum actione (D. 25.2.2, originally dealing with the consequences of the actio iudicati). The aim of this paper is to reject the position saying that matres familiarum could not be suited by way of infamous actions. For D. 25.2.2 bans a turpis actio no more than adversus uxorem (i.e. a "shameful trial" against the spouse), it concerns only the inner familiar relationship between husband and wife. So the fragment cannot be used as a general statement, valid for all women. Therefore it was normal to summon a woman with an actio furti (and also with an actio iudicati). On the basis of the Gaian fragment, the extent of use of the word addicta remains uncertain, but there is no reason to argue that women could not be subjected to addictio.


 

 

In un contribute dato alle stampe nel 20121, discutendo un testo di Valerio Massimo e la corrispondente epitome di Ianuario Nepoziano, mi sono occupato delle procedure relative alla citazione in giudizio di donne nel periodo di vigenza del processo formulare e nel tardoantico, in particolare del divieto (nel caso di matronae) di toccare il corpo femminile o la stola che ne costituiva importante segno distintivo (e allo stesso tempo simbolica protezione) nel corso della in ius vocatio2.

Da una prospettiva particolare, quella dell'effetto piu grave dell'attivitá processuale, l'addictio (e concentrandosi su un momento cronologico che ovviamente non sconfina nel tardoantico), Leo Peppe3 è tornato di recente su un testo, scarno nell'estensione, tratto dal commentario edittale di Gaio, che aveva giá affrontato (sia pure in una nota) nella sua importante monografia sull'esecuzione personale4. Si tratta di

D. 25.2.2 (Gai. <10> ad ed. praet. tit. de re iud.). nam in honorem matrimonii turpis actio adversus uxorem negatur.

Il passo è notevole per diversi motivi5, ma uno solo sará qui discusso piu da vicino. Nella tradizione giustinianea, risulta incastonato all'interno di un piu disteso brano paolino (dal libro VII ad Sabinum), diviso in due frammenti6: D. 25.2.1 e D. 25.2.3. Il primo7 apre il titolo de actione rerum amotarum e termina ricordando l'opinione, reputata esatta dal giurista severiano, attribuita a Sabino e Proculo (e seguita anche da Salvio Giuliano), secondo i quali la moglie puè commettere furto ai danni del marito (come la figlia nei confronti del padre), sedfurti non esse actionem ... Di questo esordio, come mostra il nam introduttivo, il brano gaiano, almeno nell'intenzione compilatoria, vuole costituire spiegazione, aprendo la strada alla continuazione del commentario di Giulio Paolo, ove si trova la precisazione che qualora la (ex) moglie, dopo il divorzio, rubi una cosa appartenente a quello che era stato suo marito, è tenuta (questa volta) non per res amotae, ma per furto (è ilprincipium di D. 25.2.38).

Non si vuole, in questa sede, affrontare il vasto, arduo problema dell'actio rerum amotarum, della sua storia e dei suoi rapporti con l' actio furti9. Solo discutere, in breve, l'interpretazione secondo la quale non si poteva (a quanto pare in generale) esperire un'azione infamante contro una mater familias. Peppe, nei sui Studi sull'esecuzione personale10, era giunto a tale conclusione riflettendo sul punto della possibilita o meno che una donna divenisse addicta, in particolare richiamando Quintil. inst. or. 3.6.25 (un testo estremamente interessante11). Il problema che immediatamente sorge dalla fonte retorica è la condizione del filius della donna libera addicta (se nasca servus o libero: quaestio an is quem, dum addicta est, mater peperit servus sit natus). La domanda ulteriore che Peppe si pone è se la donna potesse subire in prima persona la procedura di assegnazione giudiziaria al creditore conseguendone lo status di addicta. L'idea dello studioso romano è nel senso che almeno l' addicta risultante dall'immagine di Quintiliano dovrebbe essere la moglie di un addictus (e non colei nei confronti della quale fosse stato direttamente rivolto l'atto magistratuale). Questa interpretazione si basa (anche) su un'opinione espressa, ormai qualche decennio fa, da Okko Behrends12, che aveva utilizzato il frammento gaiano in D. 25.2.2 interpretandolo nel senso "che non si potesse esperire l' actio iudicati, in quanto infamante, contro una mater familias"13.

Per cogliere a fondo il problema, occorre dapprima sgombrare il campo da un dubbio, che sorge dal riferimento (proposto sia da Behrends, sia da Peppe) all'actio iudicati. Tale procedura è giustamente richiamata, perché costituiva l'oggetto dell'originaria trattazione gaiana, come risulta chiaramente dalla pur strana inscriptio di D. 25.2.2 (titulo de re iudicata)14. Ma - evidentemente - non essendo l'actio iudicati di per sé infamante15, il giurista d'eta antonina, in questa parte del suo commentario edittale, si riferiva piuttosto alla conseguente esecuzione personale16. Il corto circuito tra effetti esecutivi dell'azione di giudicato (contesto gaiano originario) e infamia derivante dalla condanna per furtum si realizza, con tutta probabilitá, solo nel collage compilatorio, con l'uso della locuzione turpis actio17.

Su queste basi, invero, il divieto richiamato in D. 25.2.2 mi sembra potersi riferire esclusivamente, nel contesto giustinianeo, alla moglie di chi avesse subito il furto e che, perö, come si è accennato, non poteva agire con l' actio furti18; in quello originario gaiano. invece, alla uxor che non poteva subire l'esecuzione personale da parte del proprio vir. Non pare venire in questione dal testo gaiano, in nessun caso, la mater familias tout court. Tra l'altro, corrispettivamente, l'inibizione all'actio furti valeva anche nei confronti del marito19: se ne potrebbe per assurdo indurre che a Roma chiunque (uomo o donna) fosse unito in matrimonio godesse di un'ampia esenzione a essere convocato in giudizio (per furto, ma, parallelamente, per tutte le altre azioni infamanti) e a subire atti esecutivi degradanti. Naturalmente non era affatto cosi. Solo contro la uxor (in questi termini, peraltro, si esprime il testo) in virtu di quello che Behrends chiama "Eheschutz", cioè per la difesa del matrimonio, al marito non era consentito procedere in modo che l'azione potesse condurre a una condizione disonorevole per la donna20. Vicendevolmente era solo la moglie che non poteva agire in tal modo contro l'uomo al quale era unita (ovvero che subiva forti limitazioni rispetto alla ductio21). Ed ecco perché i compilatori raccordarono al frammento gaiano il prosieguo del testo di Paolo (ora in D. 25.2.3) utilizzando un ideo esplicativo, che rappresenta la possibilitá di esperire, post divortium, l'actio furti22.

Mi sembra, dunque, che sia la predisposizione della mite actio rerum amotarum, sia i limiti alle procedure esecutive costituissero diritti singolari23, posti a tutela del matrimonio e della famiglia. Le donne, insomma, erano passibili, in generale, di azioni infamanti, ma queste non potevano normalmente24 essere esperite dal marito, il quale non poteva determinare altresi gli effetti estremi dell'esecuzione personale, a causa dello honor matrimonii25.

È ovvio che, nel caso in cui fosse dato seguito all'azione, quando fosse condannata o avesse subito la ductio o anche la bonorum proscriptio e venditio, la donna poteva non corrispondere piu a quella dignitas che si connetteva con i boni mores tipici delle matres di famiglia26. Riprendendo, solo per un momento, il problema dell'addictio, temo che il testo gaiano in D. 25.2.2 non serva a risolvere il dubbio se le donne, in generale, potessero subirla, ma allora non vedo alcun ostacolo all'inverarsi di tale possibilita (altrimenti si sarebbe realizzato uno strano privilegio femminile27).

 

 

1 Matrone "vocatae in ius" tra antico e tardoantico, in Index 40 (2012) 238 ss., ove riferimenti bibliografici sui passi e, piu in generale, sul problema.
2 Val. Max. 2.1.5. Sed quo matronale decus verecundiae munimento tutius esset, in ius vocanti matronam corpus eius adtingere non permiserunt, ut inviolata manus alienae tactu stola relinqueretur; Ianuar. Nepot. 10.4. Matrona, si in ius vocata est, pro pudicitiae reverentia ab apparitore publico tacta non est. Il punto centrale che emerge dai due passi è quello della difesa della dignitá femminile, espressa con locuzioni diverse, ma sostanzialmente coincidenti (matronale decus verecundiae, pudicitiae reverentia). La tutela della donna si esprime in un divieto, rispetto al quale si apprezza un'importante divergenza tra Valerio e Ianuario (e questo è il punto interessante per lo storico del diritto). Mentre, infatti, per il primo scrittore non si permette al privato attore di adtingere il corpo femminile in sede di in ius vocatio, nel secondo (di datazione incerta, II-V sec., ma che porrei in etá tardoantica) è l'apparitore pubblico a non poter tangere la matrona in ius vocata. La differenza tra l'archetipo e l'epitome è in primo luogo funzione delle modificazioni intercorse nella storia del processo romano, in particolare nel passaggio dalla procedura formulare (alla quale sembra riferirsi Valerio Massimo) alle forme cognitorie, di cui è testimonianza - con il riferimento all'apparitor - in Nepoziano. Per l'epoca tarda si v. anche CTh. 1.22.1=C. 1.48.1; cfr. M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht2 (München 1996) 574.         [ Links ]
3 Fra corpo e patrimonio. Obligatus, addictus, ductus, persona in causa mancipi, in Homo, caput, persona. La costruzionegiuridica dell'identitá nell'esperienza romana, cur. A. Corbino, M. Humbert, G. Negri (Pavia 2010) 477 s., v. anche 474 nt. 187.
4 L. Peppe, Studi sull'esecuzione personale I (Milano 1981) 178 ss.         [ Links ] nt. 228 (spec. 180). Sul tema lo studioso riprende e approfondisce le sue ricerche anche nell'altro recente contributo Riflessiom intorno all'esecuzionepersonale in diritto romano, in AUPA. 53 (2009) 115 ss.
5 Ad esempio l'inscriptio ha suscitato l'interesse (e il sospetto) degli interpreti. Nella littera Florentina tra libro e ad c'è infatti uno spazio bianco ove avrebbe dovuto trovarsi l'indicazione numerica; Mommsen, come in un altro caso tratto dal commentario edittale gaiano (D. 23.3.54; ed. mai. I p. 679, con un'utilissima nota in apparatu), per fedeltá a quel manoscritto, lo ha conservato nell'editio maior I p. 733. Per l'indicazione del libro X come luogo di provenienza del frammento si v. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis I (Lipsiae 1889) 188 Gaius nr. 51; B. Santalucia, L 'opera di Gaio ad edictum praetoris urbani (Milano 1975) 2, 5 nt. 16, 45 nt. 120. Un sospetto sulla genuinitá dell'inscriptio (non una certezza sulla sua natura compilatoria) fu espresso da F. Pringsheim, Beryt und Bologna, in Festschrift O. Lenel (Leipzig 1921) 270 e nt. 3 [=Gesammelte Schriften I (Hildesheim 1961) 438 e nt. 325], che rifletteva sul termine titulus; cfr. VIndex Itp. ad loc. [II (Weimar 1931) 105].
6 Cfr. O. Lenel, Palingenesia I cit. 1274, Paul. nr. 1773.
7 Rerum amotarum iudicium singulare introductum est adversus eam quae uxor fuit, quia non placuit cum ea furti agere posse quibusdam existimantibus ne quidem furtum eam facere, ut Nerva Cassio, quia societas vitae quodammodo dominam eam faceret aliis, ut Sabino et Proculo,furto quidem eam facere, sicuti filia patri faciat, sed furti non esse actionem constituto iure, in qua sententia et Iulianus rectissime est.
8 et ideo, si post divortium easdem res contrectat, etiam furti tenebitur.
9 La dottrina romanistica sull'actio rerum amotarum giunge a maturazione a metá degli anni '60 del Novecento. Vi contribuiscono da una parte la limpida monografia di Andreas Wacke, una tesi di dottorato guidata da Max Kaser (A. W., Actio rerum amotarum [Köln 1963] spec. 78 ss. sul non immacolato testo gaiano), dall'altra un rilucente contributo di Antonio Guarino (Res amotae, in ANA. 75 [1964] 253 ss.=PDR. VII [Napoli 1995] 105 ss.), che indica punti fermi, strade ancora da percorrere e soprattutto pone la questione di una storicizzazione piena dell'istituto, da ricollocare anche nella storia economico-sociale dell'antica Roma. Sul lavoro di Wacke si v. almeno le osservazioni di M. Marrone, in TR. 33 (1965) 462 ss. [=Scritti giuridici II (Palermo 2003) 965 ss.]; L. Labruna, in Latomus 24 (1965) 713 ss.
10 Cit. supra in nt. 4.
11 Alii novem elementa posuerunt personam, in qua de animo, corpore, extra positis quaeratur, quod pertinere ad coniecturae et qualitatis instrumenta video tempus, quod
χρόνον vocant, ex quo quaestio an is quem, dum addicta est, mater peperit servus sit natus ...
12 O. Behrends, Der Zwölftafelprozeß. Zur Geschichte des römischen Obligationsrechts (Göttingen 1974) 156 e nt. 221. Il maestro di Gottinga si riferisce agli ampi poteri che il creditore otteneva nei confronti del nexus, ai quali risultavano sottomessi, insieme con la persona del debitore, anche i suoi residui beni patrimoniali ("Restvermögen") e perfino gli appartenenti alla sua famiglia. Cio per una sopravvivenza dell'antico "Haftungsverband" basato sul diritto sacrale, che - a quanto pare - determinava, di contro, anche tutele endofamiliari per moglie e figli (perfino a sfavore del pater familias), fin dall'ordinamento rappresentato nelle leges regiae. Un esito di questo antico sistema sarebbe stato, ancora in eta classica, la non assoggettabilita della mater familias alla "Kerkerhaft".
13 Cosi, testualmente, L. Peppe, Studi I cit. 180 nt. 228 (da p. 178). Nel suo piu recente contributo sul tema (cit. supra in nt. 3), l'A. è, invero, sul punto specifico, alquanto cauto: "Qualsiasi ipotesi circa lo status familiae dell'addicta [scil. nell'immagine proposta da Quintil. inst. or. 3.6.25] mi sembrerebbe del tutto congetturale" (p. 377). Di seguito, Peppe passa a riflettere brevemente su Liv. epit. Oxy. 48, ove (attraverso una integrazione del testo tradito) potrebbe ricorrere la giunzione addictam ingenuam.
14 Ampiamente, sul punto, B. Santalucia, L'opera di Gaio cit. 202 ss.
15 Da ultimo, con vasta trattazione, sulle azioni infamanti si v. J.G. Wolf, Lo stigma dell'ignominia, in Homo, caput, persona cit. 491 ss.
16 Sul riferimento originario del testo gaiano all'esclusione della ductio della uxor, dopo O. Lenel, Palingenesia I cit. 188 nt. 6; e Id., Das Edictum Perpetuum3 (Leipzig 1927) 408 nt. 4 (cauto); si v.R. Santoro, Per la storia dell' "obligatio". Il "iudicatum facere" nella prospettiva dell'esecuzione personale, in IAH. 1 (2009) 77, 106 [=Scritti minori II (Torino 2009) 679, 721 s.]. Cfr. ancora la lucida rappresentazione di B. Santalucia, L 'opera di Gaio cit. 204 s.
17 Non mancano in letteratura dubbi sulla classicitá dell'espressione, che ben qualifica l' actio furti (ma non l' actio iudicati); cfr. in particolare M. Kaser, Rechtswidrigkeit und Sittenwidrigkeit im klassischen römischen Recht, in ZSS. 60 (1940) 110 s.; ID., Infamia und ignominia in den römischen Rechtsquellen, in ZSS. 73 (1956) 252 nt. 139 (da p. 251); A. Wacke, Actio cit. 80 nt. 11 (con altri riferimenti); A. Guarino, "Res amotae" cit. 270 s. nt. 69 [=PDR. VII cit. 121 nt. 69]. Ma v. G. Pugliese, L'autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni e valori sociali nella giurisprudenza romana, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti I Congresso internazionale della Societá italiana di storia del diritto (Firenze 1966) 176 [=Scritti giuridici scelti III. Diritto romano (Napoli 1985) 364].
18 Si ricordi come - nel disegnare i motivi della genesi dell'actio rerum amotarum - Paolo (in D. 25.2.1) riporti anche la tesi giurisprudenziale (di Nerva e Cassio), secondo la quale il furto era addirittura non configurabile tra moglie e marito: ... quibusdam existimantibus ne quidem furtum eam facere ... Sul frammento paolino, ampiamente, G. Lobrano, "Uxor quodammodo domina" riflessioni su Paul. D. 25.2.1 (Sassari 1989).
19 Cosi pare, secondo i giuristi, almeno a partire dal II secolo; la questione è dibattuta tra gli studiosi, si v., per tutti, A. Guarino, "Res amotae" cit. 256 e nt. 17 [=PDR. VII cit. 107 e nt. 17] (con una posizione condivisibile). Tra i testi si v. ad esempio D. 25.2.7 (Ulp. 36 ad Sab.). Mulier habebit rerum amotarum actionem adversus virum ... Altre fonti in P. Voci, "Condictiones" epossesso, in SDHI. 71 (2005) 23 nt. 27 [=Ultimi studi di diritto romano (Napoli 2007) 368 nt. 27].
20 Lo studioso tedesco è tornato a interessarsi del testo gaiano nel piu recente, notevole suo contributo Sessualitá riproduttiva e cultura cittadina. Il matrimonio romano fra spiritualitá preclassica e consensualismo classico, in Marriage. Ideal - Law - Practice. Proceedings of a Conference Held in Memory of H. Kupiszewski, ed. Z. Sluzewska, J. Urbanik (Warsaw 2005) 48 s. [=Scritti "italiani" con un'appendice "francese", una nota di lettura di C. Cascione ed una postfazione dell'Autore (Napoli 2009) 420 s.] (con nt. 99 a p. 49 [=421]), dove ne specifica la portata (per il diritto "classico") di forma edittale mitigata che impediva la configurazione del furto, a tutela dell'istituto del matrimonio. È qui palese la portata ridotta alla sola sfera familiare del divieto di agire.
21 Importante il testo ulpianeo sed verius est nec post condemnationem maritum facile duci, proveniente dal lib. III disp. frg. Argentorat., che si puo leggere in FIRA. II2 p. 310 (rectum IA).
22 Il breve testo del principium di D. 25.2.3 è trascritto supra in nt. 8.
23 D. 25.2.1 (Paul 7 ad Sab.). Rerum amotarum iudicium singulare introductum est...
24 Sempre istruttivo il confronto con M. Kaser, Das römische Privatrecht2 I (München 1971) 323 e nt. 20, II (München 1971) 172 e nt. 28, e i materiali ivi raccolti, ove sono messse in rilievo le differenze tra diritto classico e postclassico (nel quale, anche attraverso interpolazioni, si realizzano generalizzazioni relative all'impossibilita di agire in giudizio tra marito e moglie nei casi che comportavano conseguenze infamanti; sul punto specifico qui trattato si v., inoltre, l'ulteriore ampliamento risultante da B. 28.11.2). Sul punto equilibrate riflessioni anche in A. Guarino, "Res amotae" cit. 270 ss. [=PDR. VII cit. 121 ss.].
25 Ragguaglio (anche bibliografico) sugli effetti della reverentia tra coniugi in C. Fayer, La familia romana II (Roma 2005) 363 nt. 125.
26 Centrale la definitio ulpianea in D. 50.16.46.1 (59 ad ed.). Su matrona (figura alla quale si riferiscono i testi cit. supra in nt. 2, dai quali è partito il mio interesse per l'argomento) e mater familias si v., per tutti (e con ampi richiami a fonti e bibliografia), R. Fiori, "Materfamilias", in BIDR. 96-97 (19931994) 455 ss.; Id., La struttura del matrimonio romano, in BIDR. 105 (2011) 197 ss., spec. 202 ss., 223, 232.
27 Ben differente dalla tutela della pudicizia di cui era espressione il divieto ricordato in esordio di questo lavoro (supra nt. 2) e riferito alla in ius vocatio: in quel caso la matrona, proprio in quanto tale, era (ancora) portatrice della pienezza della propria dignita e dunque fisicamente intangibile.

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